L’anticamera della vita​ di A. Porrino

L’anticamera della vita​

Nell’anticamera della mia vita
il mio cuore si è seduto,
in piedi non avrebbe sostenuto l’attesa.
Tanta era,
molto più della capacità
tanta
del mio cuore ingenuo
di restare amore.
Nei tempi consumati
l’anticamera si è svuotata,
i pochi cuori che lì sostavano
distanti dal mio
si sono sgonfiati,
nulla dentro fu mai trovato
e col nulla sono scappati,
anneriti dal livore delle loro malvagità
cattivo seme che ha prodotto avidità
bisogno eterno di sazietà da riempire
con le mie gocce di pianto.
E’ così che è evacuato quel pezzo minuscolo di bene
che alla nascita li rendeva umani,
le loro impronte erano nere
e così
il cuore mio che sempre amava
nell’attesa del cambiamento sognato
puliva.
Il tempo scandiva gli anni d’illusione
come un gufo notturno
nell’abitudinaria rotazione tra il giorno e la notte,
finché arrivò quell’anno che il mio cuore stanco

vide che nell’anticamera
scie li lacrime più non c’erano,
quei cuori deformi erano andati lontano
fin dove i miei lamenti non potevano giungere
a turbare i loro sonni agiati.
Nel loro vortice erano scomparsi
la pulizia era terminata,
l’anticamera divenne trasparente.
Fu così che il mio cuore vide,
vide la vita di fuori
e la trovò bella
più di quanto l’avesse immaginata.
Come un dipinto di Monèt
era fatta di colori schizzati,
di fiori profumati più di un cesto di poutpourrì
e voci armoniche come arpe,
di cieli schiariti dalla candeggina
e lune sferiche come tendoni da circo,
di strade dritte senza buche
e d’erbe vergini.
Attendevano i miei passi.
Il mio cuore respirò profondo
un’aria carezzevole l’invase
e la mia guancia si meravigliò,
mai la delicatezza l’aveva sfiorata.
Chiusi gli occhi per imprimerne il ricordo
mi strizzai in me per trattenerne il piacere
allargando le braccia dissi:
si, ti voglio, sono pronta
innalzami così tanto
che non conosca mai più il freddo della nuda terra,
avvolgimi perché non mi trapassino più spade da crepacuore,

coprimi di sete candide così da dimenticare il sacco
che è stato il mio unico corredo,
carezza la mia pelle così da renderla di nuovo bianca
senza più quegli invisibili segni viola,
ungimi le labbra così che possa pronunciare le parole
dopo aver ingoiato l’ultimo rigurgito di vomito,
aprimi gli occhi perché possano vedere ciò che è stato oscurato,
rendi i miei capelli tappeto di danza,
conduci le mie mani al tatto vergine,
rimetti il mio cuore risanato
al posto del buco che l’emorragia aveva scavato
nel mio tronco accasciato.
Il mio sorriso ti canterà grazie ogni dì.
E ora compi il miracolo
strappami alle pareti dell’anticamera
e poni sigilli d’acciaio,
nessun cuore più deve essere lì dimenticato.
Era l’alba che tanti giurarono
d’aver visto un cuore giovane pulsare
così tanto
da alzarsi in volo da non si sa dove
per scomparire nell’arcobaleno.
E giurarono anche che quel cuore rideva
e che quelle risa erano contagiose
così tanto
che sulla terra
in quel dì di grazia
si rise soltanto.

Primo lunedì del mese di giugno 2017 ore 14
a scrivere con la destra
mentre con la sinistra mi carezzo il cuore.
E ho dimenticato di pranzare

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