Il faro della Bretagna​ di A. Porrino

Il faro della Bretagna​

Amare terre non mie è la mia passione,
scriverne è il mio mestiere.
L’alta muraglia di Saint Breuc
uniformità di grigio pietroso
si ferma alla baia,
oltre, c’è l’acqua spumosa dell’oceano
vi ci galleggiano le piume dei gabbiani volati.
È una muraglia amante,
deve proteggere la città dalla furia notturna dell’oceano.
E’ l’unico mare che amo
quello gelido che non ti fa tuffare,
è l’unica spiaggia che mi consento
quella senza ombrelloni
senza sole
quella che si dona all’alta marea
per farsi possedere fino all’alba.
Solo allora torna nuda e sola,
senza più chi l’amò allagandola.
Affondo i miei piedi scalzi tra i suoi granelli umidi
gli stridori dei gabbiani mi fanno da bussola,
dove volano loro
lì anch’io vado.
Per uniformità,
anche Saint Breuc è grigia
la coprono mattoni d’ardesia
la popola gente con indosso sempre giacche a vento scure
nel loro armadio sarebbe inutile tenere tshirt a maniche corte.
Hanno la pelle rugosa e ruvida
sa di sale e ostriche
negli occhi l’orizzonte che il mare impedisce.

Raccolgo pesci lasciati dalla marea
cammino sgusciandoli
e li mangio come caramelle a merenda.
Un piccolo scoglio mi stava aspettando,
il vento fende le mie guance fredde
le mani stentano a muovere la penna
ma lo scritto viene fuori ugualmente,
devo raccontare quello che il mare grigio della Bretagna
vorrebbe narrare se avesse voce.
Sono storie di naufragi
di gelate e reti impigliate
di notti solitarie
di pescatori che in mare divengono senza famiglia
di poeti e scrittori che si sono lasciati incantare dalle sirene nordiche
e, per esse, hanno creato versi
narrato vite,
perse
smarrite tra le onde della marea
nei cui fondali giacciono dimenticate.
La tela cerata che ho indosso non basta
a proteggermi dagli sputi del mare già al galoppo.
Scavalco altri scogli e mi appare il faro,
ha lasciato i depliants turistici
ed è tornato vero,
rimango a guardarlo fino a quando accende la sua scia di luce
fascio che indora il mare di raggi brillanti.
E’ il segnale di ritirata per i pescatori al largo
per le navi di passaggio,
per i marinai improvvisati.
Incammino i miei passi e arrivo alla sua porta

è chiusa
giro in tondo fino alla finestra,
dentro è il guardiano.
Berretto calato sulla fronte
pipa in bocca, piedi stesi fino al davanzale.
Una cartolina senza tempo.
Mi faccio vedere, ma lui resta come era,
fissa il mare.
Cosa pensa quando lo guarda?
Su un foglietto scrivo una mia ipotesi
lo appoggio ai vetri per farglielo leggere.
Lui fa cenno con la testa
No.
Ne scrivo un altro
e altri poi,
la sua testa ancora dice
no.
Sull’ultimo foglietto scrivo
mi arrendo.
Lui toglie la pipa dalla bocca, si volta e mi dice:
aspetto di condividere una tazza di tè con una persona speciale
che mi fa distogliere lo sguardo dal solito mare
e mi fa guardare i suoi occhi limpidi.
Soltanto,
per darmi conferma che esiste,
Da quanto aspetta?
Da vent’anni.
E si rimette la pipa in bocca.
Poi
si volta di nuovo verso il mare.
Raccolgo i miei foglietti
sparsi tra i ciuffi d’erba che perimetrano il faro,

li metto in borsa mentre mi allontano.
Il rumore della porta che si apre mi ferma
torno indietro, entro,
e vedo.
Su un fornello
una teiera fuma vapore caldo
sul tavolino di fianco
due tazze e due bustine di tè.
E il guardiano
in piedi
che non osserva più il solito mare.

Fine aprile 2017 ore 19,40
presa dalla nostalgia di farmi portare via dal mare bretone
tra le acque basse della marea in stanca
ad occhi chiusi
per continuare a desiderare una umanità quieta
che non c’è

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