“Elogio della gentilezza”
di A. Phillips e B. Taylor
Elogio vuol dire esaltazione, encomio. In questo caso si elogia una virtù che sta precipitando all’ultimo posto della lista del vivere civile, quasi una virtù sprecata se non addirittura un difetto.
Il titolo mi fa pensare a quella delicata modalità di vita che caratterizza la creatura che la possiede e la elargisce quando si approccia agli altri, quel granellino di sabbia che viene sommerso dalla marea ma riemerge sempre e utilizza le ore del giorno per farsi vedere.
Più volte ho amato ritornare in Normandia, luogo perfetto per imbastire gialli, ma ancora di più per riflettere, prendere appunti seduta sulla muraglia di St.Malò, osservando insieme ai gabbiani la tomba di Chataubriand che, in mezzo al mare, ogni notte viene coperta dalla marea per poi ritornare alla luce del giorno, testimoniando eterna sopravvivenza. E’ così che ha voluto essere seppellito lui, in un continuo coprirsi e scoprirsi, scendere negli abissi e risalire, morire e resuscitare.
E’ lo stesso destino della gentilezza : esiste da sempre, a volte è ben nascosta, repressa o vietata, altre sponsorizzata, sbandierata, finta, altre volte ancora usata come pane quotidiano ma solo alla mensa dei veri signori, quelli che lo sono nel cuore non nel portafoglio, e neanche nel pedigree.
Altre volte però è inesistente, sconosciuta, una parola inserita tra tante altre nel vocabolario. Ha sempre subìto alti e bassi nella hit parade del suo utilizzo, ma mai ha toccato il fondo come sta accadendo negli ultimi decenni. A. Phillips e B. Taylor hanno confezionato un libro per scoprirne le motivazioni.
Per prima cosa hanno fatto la storia della gentilezza, passando per il periodo vittoriano in cui Dickens terminava sempre i suoi racconti con il lieto fine grazie alla generosità del personaggio buono, per arrivare al concetto di gentilezza quale attributo dell’individuo prigioniero del proprio io, così come diceva il più grande teorico della gentilezza nel pensiero dell’illuminismo, e cioè Rousseau.
Poi passano a psicoanalizzare la gentilezza intendendola come modalità di comportamento verso gli altri, modalità che definiscono l’identikit di chi è o deve essere gentile, e quale potenziale di gentilezza ognuno di noi possiede nel proprio corredo genetico.
Questi due autori mi hanno portata a considerare che un’altra espressione della gentilezza è l’istinto di ascoltare gli altri, espressione questa che può considerarsi d’ amore. E’ così che posso spiegarmi l’attuale latitanza della gentilezza. La nostra è diventata una società incapace di amare gli altri e quello che appartiene agli altri, verso cui spesso si prova invidia e gelosia. Viceversa si ama se stessi tanto da amare solo quello che ci appartiene materialmente e ci qualifica, ci etichetta, ci mette in evidenza. E non importa se per possedere bisogna scavalcare o sopprimere l’altro, sia esso collega di lavoro, vicino di casa, amico, fratello, figlio persino.
“ Una società competitiva che divide le persone tra vincenti e perdenti, produce comportamenti egoisti. Gli esseri umani sono esseri ambivalenti, la generosità ci viene spontanea come anche l’aggressività. La gentilezza quindi può essere segno di perdita di potere “
Fermiamola allora, dico io, questa società dell’io machiavellico e ri-educhiamola come voleva Freud, sproniamola a riacquistare quel qualcosa che era già stato sentito e consentito, e che ci portava a includere noi negli altri. Scaviamo una trincea intorno a questa massa moderna e globalizzata, prima che si arrivi al paradosso di rimanere indifferenti verso tutto ciò che un tempo era aberrante: l’indifferenza verso il povero, l’ammalato, il perseguitato, il bullizzato, il picchiato, verso il corrotto, il politico incapace, l’indifferenza verso le tante piccole ma buie cose della vita pubblica e privata.
Verso chi vuole buttare il crocifisso, simbolo per eccellenza di amore e generosità, perché ritenuto desueto quindi sgradevole alla vista. Facciamo qualcosa, qualsiasi, purchè fatta con gentilezza.