Susana Chavez Castillo. Una delle più autentiche poetesse di denuncia.

“Della vita di Susana Chavez Castillo non vorrei dire molto, troppe volte la sua biografia si è ridotta alla sua morte. È della sua opera, invece, che è bello dire. È lì che è bello stare. Lei non aveva gruppi di seguaci che non fossero le donne che condividevano i suoi giorni, le sue notti. Lei faceva senza annunciare, annunciava senza fare. Viveva e basta. Nell’incanto, nella rabbia, nel desiderio, nell’errore”

Concita de Gregorio

Il termine femminicidio fu coniato dall’antropologa messicana Marcela Lagarde spinta dalla ennesima uccisione di una donna, in questo caso si trattava della poetessa Susana Chavez Castillo.

Susana la poesia ce l’aveva nel sangue, e per quel sangue muore.

Scriveva versi crudi, forti, d’impatto, senza orpelli, senza metafore. Spesso rabbiosi, è così che reagiva alle sopraffazioni che non poteva evitare. Le sue poesie le pubblicava sul suo blog, mai sono state editate, rimasero lì come un aborto. 

La poesia era la sua arma bianca, il mezzo per lottare senza corpo contro chi usava armi vere per impedire alle donne messicane di lavorare nelle fabbriche create dagli americani, molte di esse infatti venivano massacrate e uccise, lasciate poi lì al confine per intimorire le altre. Fu lei la prima donna a urlare attraverso la sua penna – non una di meno, non una morta di più – frase che ormai si identifica con la battaglia, estenuante e mai paga, contro il femminicidio. I versi di Susana sono pugni contro l’indifferenza, la convenienza, la supremazia violenta, contro tutto ciò che è inverso al giusto, contro tutti quelli che volutamente insistono ad essere dalla parte sbagliata, quella nera del lutto, rossa di sangue innocente. Lei canta alle bambine, alle madri le cui ombre sono sempre inseguite da aguzzini mai paghi, mai redenti.

– Ho smarrito il conto delle tue ossa – scrive in una poesia che parla delle carni femminili martoriate.

La sua condanna a morte fu decisa quando Susana scrisse una poesia per ricordare l’uccisione di una ragazza la cui madre organizzava marce di protesta contro chi le donne le usava al pari dei manichini smontabili. Susana fu uccisa a gennaio del 2011, il suo corpo, che aveva soltanto trentasei anni, fu abbandonato seminudo per strada con la mano destra mozzata. Tale brutalità fu fatta passare per tragica conseguenza di una notte di sesso e alcol, con l’intento di calare il sipario sulla ennesima ribellione. 

La madre, dopo il funerale, lasciò sulla tomba di sua figlia la sua breve famosa poesia:

Sangue istante / nel quale nasco sofferente /
nutrita della mia ultima presenza 

Da questa morte, ancora adesso, ovunque, si urla a viva voce :

– non una di meno, non una morta di più –

Ed è dalla storia di Susana che è nata l’ispirazione di creare la ormai famosa installazione delle scarpette rosse nelle piazze, un paio per ogni donna uccisa, a ricordarne il nome e il motivo del suo sangue versato, ancora una innocente che aveva osato ribellarsi al suo persecutore: padre, marito, compagno, fratello, collega di lavoro, amico, vicino di casa.

Ho potuto conoscere meglio questa poetessa alla presentazione di Concita de Gregorio del suo libro – Susana Chavez Castillo – Prima tempesta – Dopo una interessante prefazione, Concita de Gregorio ci spiega il suo lavoro di traduzione sulle poesie di Susana, traduzione curata con precisione maniacale e scrupolo professionale nell’interpretare le parole di una delle sue poetesse preferite, attenzione che l’ha portata a ore di riflessione su ogni singola parola, su ogni verso, per non rischiare di alterare l’autentico linguaggio della poetessa, per convincersi che quella parola in italiano era esattamente quella scritta da Susana in messicano. 

Con le sue spiegazioni Concita ci ha mostrato, come fosse lì con noi, la Susana lottatrice, la poetessa che non usa inutili orpelli per scrivere parole di denuncia, una Susana passionaria quando ama, ma anche protettiva quando racconta al femminile e per il femminile. Poi Concita ci ha letto alcuni versi, scorrevoli come il sangue, o brevi e asciutti più dei panni stesi al sole d’agosto, tesi come le vene delle condannate, diretti più delle fucilate, versi senza sorta di assoluzione come non può provarla una orfana disperata. Ho comprato il libro e l’ho ringraziata, anche per la dedica che mi ha scritto, elogio a mia figlia sua amica fedele e fidata. Insieme ad altre loro amiche e colleghe ci concediamo due passi per Piazza Navona, a quest’ora svuotata dei turisti, tra ciottoli scivolosi e risa di complicità. E di soddisfazione. Ancora una volta, una di noi, ma poi toccherà all’altra e all’altra ancora, ha usato la sua penna talentuosa per far emergere verità, per scuotere, per essere donne tra le donne e per le donne. 

Eravamo donne grate di essersi incontrate lì, o molto prima. Torno a casa paga, quel libro sul comodino mi consegna un senso di vittoria, nel contempo un impegno, lo sussurro a Susana prima di spegnere l’aboutjour: anche io contribuirò a non farti dimenticare …

“Che si uniscano alla mia lotta /se davvero vogliono vivere /
In una mano la luna / nell’altra l’avvenire“ 
Susana Chavez Castillo

Annamaria Porrino, 2025
Recensione pubblicata sul portale Rai – Cultura e Letteratura

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