Omaggio a Virginia Woolf
di Annamaria Porrino
Una “Stanza tutta per sé” è il titolo di un piccolo libretto di Virginia Woolf, divenuto però molto celebre forse perché ancora adesso è il sogno, o l’esigenza di ognuna di noi. Chi, infatti, non ha mai desiderato una stanza tutta per sé? Io, è quello che chiederei se avessi l’abitudine di spegnere le candeline il giorno del mio compleanno, o se me ne stessi naso in sù a guardare le stelle cadenti nella notte di San Lorenzo.
A pochi passi da casa, da raggiungere a piedi, dove potersi rintanare libere dal telefono e dal campanello, dove non si deve guardare l’orologio e interrompere quello che si stava facendo perché si è fatta ora di pranzo o di prendere i figli a scuola. Il proprio luogo per eccellenza dove nessuno viene a distrarti facendoti “sentire una bambina sperduta che si siede a piangere sull’ultimo gradino” come si sentiva lei quando veniva disturbata. “Una stanza tutta per sé” è un saggio scritto mettendo insieme le conferenze lette dalla Woolf alla Ars Society di Newnham e quella alla Odtaa di Girton, entrambe università femminili, nell’ottobre del 1928. Le era stato chiesto di trattare l’argomento: – Le donne e il romanzo -, ma lei uscì fuori tema perché pensò – Cosa devo dire? Come è la donna reale e quella del romanzo? O come sono le donne che scrivono romanzi? Se è così dirò subito che se una donna vuole scrivere, deve avere del denaro suo e una stanza tutta per sé –
“Lo scrittore ha la possibilità di vivere nella realtà, il suo compito è trovarla, raccoglierla e comunicarla agli altri, cosicché a lettura finita, il mondo ci sembra svelato. È questo che intendo quando vi chiedo di guadagnare soldi e di procurarvi una stanza per voi, vi chiedo di vivere in presenza della realtà”.
Che antesignana del femminismo è stata la Woolf in questi discorsi! Nel 1928 si è permessa di dire alle studentesse che erano lì ad ascoltarla, che dovevano essere innanzitutto indipendenti economicamente e poi nella vita pratica, uscendo cioè da quel rigore moralistico dell’epoca, che considerava la vita della donna da viversi esclusivamente tra le mura domestiche, prima paterne poi coniugali. Era da secoli infatti che le case erano permeate dalle presenze femminili le cui creatività rimanevano attaccate alle pareti, e solo ad esse. Semplici o fastose, scarne o fregiate, piccole o grandi, ma tutte stanze in cui le donne sono state “posate” non appena si sono spogliate del loro abito nuziale, spesso dimenticate o addirittura segregate, ma anche stanze in cui le matrone hanno dominato il gioco domestico fingendo di ricamare, hanno gestito il proprio matrimonio secondo convenienza o stabilito a tavolino quello della propria figlia. Stanze in cui si è dato sfogo alle proprie ambizioni ma di nascosto, come quella di scrivere anche in epoche in cui tale virtù non era femminile, costringendo autrici come Jane Austen, grazie allo scricchiolio dei cardini della porta, a nascondere il manoscritto prima che entrasse un estraneo e scoprisse il suo segreto, il segreto della sua stanza. Una “stanza tutta per me” sarebbe come un involucro, un utero, un bozzolo dal quale uscire solo a formazione completata, un luogo vergine dove la mia creatività ne definisce il volume dandogli un senso, forse il senso delle parole lì dentro scritte, perché no, anche per la Woolf.
E la immagino leggerle queste parole dietro al suo scrittoio in legno, con penna e calamaio da un lato e un vaso di fiori freschi dall’altro, come è dipinto sulla copertina di questo libro, alzando gli occhi di tanto in tanto per guardare dalla sua finestra la campagna, quella campagna inglese che doveva guarirla ma che lei non amava, al punto da farla diventare scenario del suo suicidio, chiusa nella sua stanza, quella stanza tutta per sé che lei aveva ottenuto e che auspicava per tutte le altre donne, e che, alla sua morte, ha lasciato a testimonianza di quel poco di cui lei ha avuto bisogno: un piccolo letto, uno scrittoio, una libreria stracolma, quattro mura bianche e una porta sempre chiusa a chiave per non far disperdere la sua genialità.
Ripensando a questo famoso discorso, anni fa scrissi un racconto breve per la Nevermind che entrò a far parte di una raccolta di racconti brevi intitolata – Racconti solidi come castelli di carta –
Una storia breve ma molto fantasiosa e originale.
“Virginia e la sua stanza”
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Guardando la foto della sua scrivania, io ho scritto una poesia su come vorrei fosse la mia scrivania.
La mia scrivania
La mia scrivania deve essere me,
vederla e dire – è la scrivania di Annamaria –
deve essere un tutt’uno.
Grande, lunga, larga,
di legno chiaro, bianco forse,
voglio scrivere sulla luce anche a notte intensa.
Deve avere una lampada
alta, dal busto sottile,
con un bel paralume di stoffa
gonfio come le sottogonne delle damine.
Deve avere un leggio antico
quando ci poggerò i miei fogli scritti a mano
devo pensare che altri lo hanno fatto prima di me
nei decenni addietro.
Deve avere tre contenitori:
uno per le mie matite
colorate, di legno grezzo, rivestite di carta,
uno per i miei segnalibro
floreali, pieni di citazioni, vecchi,
uno per le mie penne
fiorate, piene di cuori, a strisce
quelle che scrivono rosa, arancio, verde, lilla.
Di fianco, fuori dal contenitore,
la mia Mont Blanc, la mia Cartier, la mia Swarosky col pendente
la mia stilografica con la boccetta piena di inchiostro indaco.
Deve avere cassetti per i miei quaderni
quelli neri, dalla carta di pane, rivestiti di fogli romantici
quelli nordici, stilizzati, rigidi, plastificati
quelli spessi quanto libri.
Poi un vaso, mai sarà vuoto,
fiori, rami, erbe dovranno riempirlo di stagioni
le mie e quelle del calendario.
Accanto, un portafoto, uno solo
la bellezza gioiosa e pura di mia figlia
deve guardarmi mentre compongo.
E poi ancora :
un portalettere per le lettere che non ho ancora scritto
e quelle che non ho ricevuto ma ho atteso,
un calendario manuale
ogni dì sarò io a darne l’inizio
diverrà il calendario dei miei giorni
e se quel giorno non mi è piaciuto
lo rimando indietro e lì lo resto,
un timbro con le mie iniziali
per ricordarmi che un mattino qualcuno mi nominò,
e il necessario per un sigillo
una rosa sarà la mia firma, impressa con la cera.
Per ultimo piccoli portafoto
con foto di famiglie non mie
la mia l’hanno distrutta i familiari stessi
nella costanza del loro male,
gli ultimi pezzi li ho scaricati nelle fogne.
E poiché non c’è scrivania senza foto di famiglia
io ne prendo in prestito una
dai volti puliti però.
Le mie mani daranno vita a questi oggetti,
i miei gomiti consumeranno il legno della scrivania
dandole una età,
i miei occhi le indicheranno il pudore di non darsi a nessun altro,
la mia mente le darà corpo,
le mie storie le daranno vita.
Sarà la scrivania del sentimento intatto
mai traditore,
benefica nel farmi scrivere su di essa
incurante del peso dei miei pensieri da reggere.
Sarà la mia convivente
discreta e muta più di me
indispensabile, come io per lei.
Sarà,
perché per ora ancora tengo un tavolino
quello piccolo che a stento mantiene i miei polsi curvi
quello che uso per correggere, ricopiare.
La mia vera scrivania sarà nella mia vera casa
quella che nessuno ha vissuto prima che il mio piede entrasse
quella in cui altro piede mai entrerà dopo me.
Sarà testimone delle mie lunghe ore di pensiero senza interruzioni
degli affanni per rendere più tarde le luci
dell’idea che fugge e mai deve
di parlare di me attraverso calligrafie
di urlare tra le rime
di portare in seno soltanto verità.
Alla mia morte e solo allora
di fianco al sorriso lucente di mia figlia
si potrà porre una foto che mostra la mia scrivania così come è stata
e su essa, nella foto si vedrà
una mano che scrive sanguinando
e una lacrima che rende illeggibile il foglio scritto.
Sulla scrivania
tutto com’era,
le ragnatele e la polvere
indicheranno la me che c’era
i fiori freschi nel vaso la me che sempre c’è.
Chi metterà fiori sempre freschi ?
Le mie sillabe composte
che hanno regalato libri quindi emozioni
e tutti sanno che le emozioni sono eterne
sempreverdi
sempre fresche.
Sempre vive.