Donne assoggettate fino alla follia perché ritenute scomode.
Donne destinate ad una sorte non scelta da loro .
Ancora una mia mini ricerca sulle donne, in questo caso su quelle donne che, dai lontani passati ad oggi quasi, hanno subìto ingiustizie sociali, lavorative, familiari, per mano di uomini a loro vicini; padri, fratelli, mariti, colleghi di lavoro, o dall’intera società maschile dei loro tempi. E questo per tante motivazioni: egoismo, desiderio di prevalere sull’essere
sin troppo e per troppo tempo considerato manovrabile quindi da poter sottomettere, per l’innata e approvata convinzione della superiorità maschile su quella femminile, per interessi familiari, per soddisfare egoismo e brama di prevaricazione. O semplicemente perché erano abituati da sempre a comportarsi così, o ancora più semplicemente perché da secoli buona parte dell’umanità maschile prova l’innato desiderio di farci del male, anche privandoci di ciò che spesso abbiamo in più. Qui di seguito un breve elenco di donne che hanno subìto la devianza del proprio destino, e relative conseguenze, per mano dell’uccisore di turno, quello più subdolo, quello che non usa armi e non procura mai
morte fisica ma che non demorde mai, quello che fa di te il suo cibo quotidiano indispensabile a saziare le sue patologie mentali, quello che ti utilizza per ottenere ciò che diversamente non potrebbe.
Cornelia Schlosser, sorella di Wolfang Goethe.
Cornelia ricevette una istruzione al pari del fratello, cosa questa molto rara per quei tempi, ossia inizio settecento. Non soltanto canto e musica ma anche arte, scienza e lingue straniere, con suo fratello poteva quindi dialogare di ogni argomento, crebbero infatti in un rapporto paritario mantenutosi fino a quando Wolfang si recò a Lipsia per studiare. Quando, dopo tre anni, lui tornò, era un altro uomo, un altro fratello: per lui le donne erano inferiori agli uomini e tali dovevano rimanere, anche come formazione culturale, come posizione sociale e familiare, dieci passi indietro o due gradini in basso. Ciò nonostante, in privato, è a lei che affidava le bozze dei suoi scritti per farsele correggere e migliorare. Cornelia lo faceva, aveva capito che era il massimo cui poteva aspirare e se lo fece bastare, e il suo piacere accresceva mentre, in segreto, scriveva due manoscritti che intitolò – Lettere dalla casa dei miei genitori – e – Lettere e corrispondenze segrete – Malvolentieri si sposò e, a causa di complicanze dopo il suo secondo parto, morì.
La verità però, tanto celata per decenni, emerse, e così ora sappiamo che parte degli scritti di Goethe non sono stati corretti e perfezionati da lui stesso o dagli editori o da amici e colleghi intellettuali, bensì da sua sorella, quella donna che lui riteneva inferiore!
Dorothy Wordsworth, sorella di William Wordsworth.
Dorothy visse ben 84 anni. In seguito alla morte della madre prima e del padre poi, i due furono divisi e dati in affidamento a parenti vari, riuscendo però a ricongiungersi da adulti. Da quel momento Dorothy si dedicò così tanto agli scritti del fratello che non volle mai sposarsi, trascorse i suoi anni annotando ogni evento quotidiano per comporre la biografia del fratello, non smetteva neppure quando si ammalava, nonostante ciò accadesse spesso, e tutto avveniva nel riserbo della loro casa, lontano da occhi e orecchi. E William non disse mai chi era sua sorella e cosa faceva per lui. Sembrava tutto destinato a restare così, nascosto e sconosciuto anche dopo la morte di lui, e invece, quando Beatrix Potter acquistò la loro casa con relativa tenuta, nella rimessa degli attrezzi agricoli trovò i diari di Dorothy, e tutto venne fuori. Emerse anche che, non soltanto il fratello si affidava totalmente al giudizio della sorella, ma che usufruiva spesso delle descrizioni che lei faceva su persone, luoghi, paesaggi, per poi scrivere le sue. Si pensa che sia stata la stessa Dorothy a nascondere ogni traccia di ciò in quella rimessa, certa che si sarebbe tutto deteriorato e quindi perduto, così da non intaccare la grandezza poetica del fratello, seppure a danno di sè stessa. Invece non è andata così. Ed è ancora grazie a questi ritrovamenti che abbiamo saputo che, nella poesia Tintern Abbey, William è la sorella che descrive, non altra donna, né una donna da lui amata, no, è sua sorella, quella che, volontariamente, visse e operò dietro la sua ombra. E lui la lasciò fare.
Cassandra Austen, sorella maggiore di Jane.
Le ricerche e gli studi degli ultimi decenni ci hanno fatto conoscere le bugie, gli intrighi e le calunnie che i critici del tempo sparsero negli ambienti culturali, e non solo, circa la figura di Cassandra. Sia lei che Jane furono istruite prima in casa, poi in collegio, infine di nuovo in casa dove impararono anche a suonare il pianoforte oltre all’arte del disegno e del canto. I loro fratelli si sposarono e molto presto lasciarono la casa paterna, loro due invece decisero di restare nubili per dedicarsi esclusivamente alla cultura. Cassandra ebbe un ruolo fondamentale nella carriera di Jane e nella continuazione delle sue pubblicazioni dopo la morte di lei.
Dopo essere riuscita a farla seppellire nella cattedrale di Winchester, Cassandra si impegnò fino alla fine dei suoi giorni a far conoscere anche la vita privata di Jane, avendo per questo conservato tutta la sua corrispondenza privata. Ma non solo, trascrisse tutto quello che Jane le aveva raccontato oralmente, preservò tutti gli scritti originali e le lettere che Jane le scriveva quando era fuori città, tutto pur di far conoscere il lato umano e familiare di questa sorella amata cui lei aveva fatto da segretaria e consigliera, da supporto negli inevitabili momenti di sfiducia, e da colonna portante a reggere le insicurezze che Jane provava dopo ogni scritto. Ma non basta, tutte le illustrazioni che completavano le pagine dei libri di Jane erano sempre opere di Cassandra, abile disegnatrice che ben interpretava i desideri della sorella e li trasferiva su carta come altri non avrebbero potuto. Ebbene, nonostante tutto questo, poiché non c’erano prove su cui fondare calunnie più potenti per esaltare soltanto Jane che procurava molto guadagno con le sue vendite postume, ed evitare il rischio che Cassandra potesse iniziare a scrivere di sua mano e pubblicare intaccando forse la fama di Jane, i critici e gli editori del tempo sparsero voci circa una certa invidia di Cassandra verso la sorella famosa, così da poterla accusare di non aver conservato altri ipotetici manoscritti, di aver scritto lei alcune lettere per delineare un falso profilo di Jane, che non avrebbe saputo o voluto gestire bene la tenuta ereditata, e che il ritratto ad acquerello che Cassandra fece a Jane, che ancora adesso è l’unico che ci fa ricordare del suo volto, volutamente sarebbe stato eseguito alterando i lineamenti originali per rendere un po’ bruttina la famosa sorella, e che quello che si diceva ai loro tempi, e cioè che Jane rispettava così tanto la cultura e la formazione letteraria di Cassandra da farsi consigliare da lei e persino correggere i suoi scritti, in realtà era soltanto frutto dell’invidia di questa sorella, inferiore quindi calunniatrice. Ci troviamo di fronte ad un caso di tale alterazione della verità, da credere che tutto ciò sia avvenuto anche per rabbia verso colei che aveva goduto del privilegio di condividere con una grande scrittrice ogni suo rigo, ogni ispirazione, ogni momento di vita familiare, in una intesa così rara da far annerire tante lingue invidiose.
Vanessa Stephen Bell, sorella maggiore di Virginia Woolf.
Vanessa visse ben 82 anni: si sposò, ebbe due figli, studiò arte, divenne una pittrice abbastanza nota, e lasciò il marito per unirsi ad un pittore di cui si innamorò follemente. Ma, prima di tutto questo, dovette prendersi carico della famiglia quando sua madre morì, fronteggiando a vita le nevrosi di Virginia e del loro padre. A causa di tutto ciò dovette a lungo reprimere il suo talento. Alla morte del padre decise di vivere con sorella e fratelli, da soli, in una casa in un quartiere di Londra decisamente demodè.
Nel suo diario si legge… quello che contava era avere una stanza per ciascuno, per me nel 1904 era come essere usciti di colpo in pieno sole dal buio, per la prima volta nella mia vita ero libera di dipingere per quanto tempo mi pareva, nella mia stanza…
Si appassiona a vari stili pittorici ma dipinge innanzitutto ritratti senza volto, poi disegnerà abiti e scenografie teatrali, creerà murales. Dopo che fratelli e sorella iniziarono le loro vite matrimoniali, con il nuovo compagno Vanessa potè finalmente viaggiare senza mai più data di ritorno, e impegnarsi freneticamente per la diffusione dell’arte. Fondò associazioni culturali e sperimentò sempre cose nuove, a lei infatti si deve anche la creazione del Bloomsbury Group, un gruppo di intellettuali e artisti della colta élite londinese, etichettati come spiriti liberi.
Ma tutto questo si ferma di colpo dopo la morte di uno dei suoi due figli e dopo il suicidio della sorella Virginia, ogni estro si rallenta, lei si indebolisce anche nel fisico seppure non smetterà mai del tutto di praticare arte. Continuò a vivere a Bloomsbury, quel quartiere di Londra dove all’epoca abitavano i componenti della sua Associazione e altri artisti e intellettuali, geni che influenzarono l’arte e la letteratura dell’epoca, insieme a lei promulgavano il pacifismo e il movimento femminista che proprio allora stava sorgendo. Eppure, nonostante tutto questo, Cassandra è citata o ricordata soltanto come la sorella che si prendeva cura delle nevrosi della famosa Virginia, che le portava i figli per darle il senso di una famiglia, che le voleva bene e apprezzava la sua scrittura. Persino nei film che raccontano di Virginia questa sorella è rappresentata così, una figura affettiva di Virginia, quasi senza vita propria. Come se desse fastidio questa sorella altrettanto talentuosa quanto l’altra, seppure in ambiti diversi, come se alla vasta eco del suicidio della famosa scrittrice non dovesse esserci altro familiare a continuare in vita il proprio talento riconosciuto, ma soltanto l’eredità postuma di Virginia, come se accettare due talenti in una sola generazione familiare femminile fosse troppo, come se non dovesse vivere più null’altro e nessun altro dopo Virginia. Questa è un’altra delle tante forme di offesa e repressione perseguite nel tempo contro il talento femminile, anche se, in questo caso specifico, una piccola apertura si sta diffondendo negli ultimi tempi, qualcuno infatti ha iniziato a parlare un po’ di Vanessa, anche se soltanto come colei che nella sua arte ci metteva i propri sentimenti. Però, in questo esiguo giudizio, io evidenzio due riconoscimenti: si parla di una sua arte quindi c’è ed è molto personale, cioè distinta da altre, e si parla della particolarità di questa sua arte. Direi che non è affatto poco, come inizio.
Una grande artista comunica cosa sente, non cosa vede, diceva lei, e lei dipingeva così, perché era una grande artista, anche se ancora adesso nessuno vuole ammetterlo completamente, seppure siano in molti a pensarlo.
Lavinia, detta Vinnie, sorella di Emily Dickinson.
Ultima dopo sorelle e fratelli, visse 66 anni. Per l’alta considerazione che provava verso sua sorella Emily e dalla decisione di lei di confinare la sua poesia e la sua vita nella propria camera, Lavinia decise di non sposarsi per dedicarsi totalmente ad Emily. Ed è soltanto a questa devota sorella che dobbiamo essere grati di poter leggere le poesie di Emily, Lavinia infatti decise di non rispettare la volontà di sua sorella che era quella di provvedere a bruciare ogni pagina subito dopo la sua morte. Fu Lavinia quindi a provvedere alla pubblicazione e alla diffusione di tutti quegli scritti, e questo compito le riempì il resto della sua esistenza, vissuta in quella casa fino alla sua morte. Tutta la sua vita quindi fu dedicata soltanto alla sorella, una auto costrizione a non esistere per far esistere l’altra, rinnegare ogni talento proprio per far emergere quello dell’altra, di evitarle ogni incombenza quotidiana per non disturbare la sua concentrazione, continuare a vivere per sostenere il valore di chi non c’è più senza mai volere nulla per se stessa, fino a convincersi di non avere un proprio valore per pensare di fare qualcosa per sè stessa, piuttosto quindi essere utile all’altra che invece il talento ce l’ha, e si potrebbe continuare all’infinito. Questo è un altro dei tanti aspetti di abnegazione, costretta o volontaria, da offrire come un inchino quotidiano a chi si ritiene essere superiore. E se Vinnie avesse provato anche lei a scrivere ? Se avesse utilizzato la sua cultura per trovare nel suo nascondiglio intimo lo spazio per divenire altro ? Se avesse provveduto a dividere le inconpense quotidiane con la sorella, avrebbe avuto la possibilità, il tempo e la concentrazione per crearsi come forse poteva ? Ed Emily avrebbe avuto il tempo, la concentrazione e la serenità di scrivere quella quantità di poesie ? A questa ultima domanda la risposta è certa: no! Per le altre si possono soltanto formulare ipotesi, ma proprio perché ipotesi potevano non concretizzarsi, ma anche si. Questo non l’ha mai saputo Lavinia e neanche tutte le Lavinie del mondo passato e contemporaneo. Si perché questa auto-annientazione verso l’altro che innalziamo ad un livello superiore mentre noi restiamo ai piani bassi, se non sotterranei, è ancora contagiosa. Tra noi donne però.
Rosemary Kennedy, sorella dei famosi fratelli Kennedy.
Rosemary nasce nel 1918 e muore 86 anni dopo. Suo padre, un religioso fanatico e intransigente, avendo la legge dalla sua parte, autorizzò che sulla figlia si praticasse una lobotomia, una terribile mutilazione cerebrale, per il solo fatto che questa figlia viveva spesso sbalzi di umore, a parer suo non sani. In realtà questo padre temeva che, la spigliatezza di Rosemary verso i ragazzi e la sua voglia di vivere le giornate facendo tante attività, avrebbe potuto provocare conseguenze scandalose per la famiglia, avendo da sempre grandi aspettative circa i suoi figli maschi. Preferì perciò distruggerle parte del cervello e renderla sopita e lenta, insomma innocua.
L’intervento provocò più danni del previsto e Rosemary si ridusse ad avere una facoltà mentale pari a quella di una bambina di pochi anni, incapace quindi di essere autonoma. Fu mandata in un collegio dove ci visse fino alla morte.
Il padre, che riuscì a far mantenere tale segreto per decenni, non andò mai a trovarla, né mai si pentì di ciò che aveva fatto, per lui lo scopo era stato raggiunto e questo gli bastava a vivere la sua vita senza preoccupazioni. La madre si recò in visita soltanto una volta, ma venti anni dopo. La comodità del nascondimento di tale orrore coinvolse persino i fratelli, si seppe qualcosa soltanto alla elezione di John come Presidente degli Stati Uniti, anche se si parlò di una sorella nata con deficit mentali. La verità per intero si conobbe soltanto nel 1987 ma, nonostante ciò, mai si è saputo cosa abbiano fatto né come abbiano reagito i fratelli famosi o le altre sorelle che il padre aveva ritenuto normali, ma sappiamo che Rosemary è morta in quell’istituto, quindi nessuno mai se ne è voluto prendere cura pur avendo tutti i mezzi per farlo, nessuno ha voluto riparare il grande torto familiare inferto su una ragazza innocente, nessuno ha voluto che se ne parlasse.
Quante domande si possono formulare adesso!
Come sarebbe cresciuta Rosemary, cosa avrebbe fatto nei suoi vent’anni, nei suoi trenta, nei suoi cinquanta, perché non le hanno concesso neppure un po’ di giustizia postuma, è morta da sola, avrà avuto una sepoltura nella imponente cappella di famiglia o giace in una tomba anonima… ?
Una cosa è certa, se fosse nata maschio, suo padre l’avrebbe definito al massimo un ragazzo un pò esuberante, ridendone con i suoi amici come fosse una battuta e nulla più.
Elena Cassandra Tarabotti
L’esempio di Elena Cassandra Tarabotti, secolo 1600, è quello di una immolazione di vita imposta da uno dei due genitori, guarda caso sempre dal padre, molto diffusa nei tempi passati, quando cioè la volontà filiale femminile non aveva diritto di esistere. Elena nasce in una famiglia veneziana benestante, è lei la primogenita di sette sorelle e quattro fratelli. Suo padre era zoppo dalla nascita, ma questo difetto in un uomo non aveva alcuna importanza, purtroppo però Elena ereditò lo stesso difetto e per lei, donna, era un problema grave. Non essendo candidabile per un buon matrimonio, fu costretta a farsi suora, come è accaduto a molte altre donne e per molti secoli, precedenti e successivi.
Era giovane quando varcò la soglia del monastero benedettino di Sant’Anna, e lì rimase fino alla morte che giunse più di trent’anni dopo. Quanta umiliazione in quel carcere forzato, quanta rabbia per le sue gambe zoppe che l’avevano resa una ergastolana innocente. Eppure, dopo anni di lacrime, Elena ribalta la sua condizione, da vittima che piange la sua sorte passa ad una vita vissuta nell’orgoglio del riscatto. Usando un nome diverso dal suo, inizia a scrivere per sfogare la sua rabbia, ma anche per denunciare la sua condizione condivisa da tante altre donne, condannate come lei, per mere convenienze familiari.
Ne vengono fuori opere dal titolo:
- Tirannia paterna – dove lei narra di una ingenuità ingannata sotto la metafora di un uccellino che svolazzava libero nel bosco, e cantava persino, fino a quando viene intrappolato in una rete e rinchiuso in una gabbia;
- L’inferno monacale – dove lei descrive nel dettaglio la durezza della vita monacale quando non è stata volontariamente scelta, descrivendo tutti i passi compiuti dall’ingresso per quel portone chiusosi alle sue spalle;
- Il paradiso monacale – che era quello che vivevano quelle monache definite spontanee, quelle cioè che quel portone lo varcavano nella gioia della loro scelta;
- Il purgatorio delle maltrattate – la vita di espiazione in un monachesimo non voluto che diviene un inesauribile purgatorio, senza però mai godere di quella pietà che poi pone fine alla sofferenza e conduce al paradiso;
- Che le donne siano della specie degli uomini – reazione che oggi si definirebbe femminista in risposta ad un trattato in cui si arrivava a sostenere che le donne non posseggono neppure un’anima!
Non si è mai saputo come abbia fatto, ma Elena Cassandra, nonostante la sua clausura, riuscì ad avere corrispondenze epistolari con scrittori e filosofi dell’epoca, e a farsi pubblicare seppure con uno pseudonimo. E non si sa chi poi sia riuscito a riscattarla facendo sapere a tutti chi era e cosa aveva scritto quella monaca forzata, deceduta in un convento veneziano dopo più di trent’anni di prigionia innocente.
Zelda Sayre, moglie dello scrittore Fitzgerald.
Già dall’adolescenza Zelda vive spregiudicata e libera. Scandalizzando circoli culturali e artistici, a prevalenza maschile, anticipava il fenomeno del sessantotto femminista. Praticava la scrittura, la danza, l’arte in ogni sua forma. Sposò lo scrittore Fitzgerald, già famoso non soltanto come scrittore ma, ahimè, anche come indomabile alcolizzato, e per questo la loro unione fu totalmente deleteria per Zelda. A causa dei danni dell’alcool, ma anche per la sua stessa indole, Fitzgerald convinse sua moglie di non avere alcun valore artistico. Lei, totalmente plagiata, gradualmente lasciò la danza, posò pennelli e argille, e ogni altra cosa che per lei era motivo di vita, si lasciò prendere dalla depressione. Non si sa come però, la diagnosi fu invece di schizofrenia, il giusto lasciapassare per ricoveri in manicomio dove, la non pazza Zelda, morì giovane.
Sua madre continuò a vergognarsi di questa figlia persino oltre la morte, prima spregiudicata e poi pazza era troppo deplorevole, mentre il suo celebre marito proseguì carriera e fama ignorando quello che di scritto e dipinto era rimasto di sua moglie, poteva convincere e convincersi che non avevano alcun valore, era libero, non aveva più concorrenza in casa propria.
Alla fine degli anni 90 però qualcuno si è ricordato di Zelda, ha raccolto le sue opere superstiti e le ha esposte, e i suoi scritti furono pubblicati da editori coraggiosi, furono letti e apprezzati, specie – Lasciami l’ultimo valzer –
Si potrebbe gridare al miracolo della rivalutazione postuma, invece no.
Nonostante le prove emerse circa ciò che ha subìto, ciò che aveva ed era e poi perduto, Zelda Sayre è ancora ricordata come la moglie del famoso Fitzgerald, donna molto labile mentalmente che, non reggendo il valore e il successo del marito, perse il controllo mentale, impazzì e morì in manicomio.
Lucia Joyce, figlia dello scrittore James Joyce.
Diventa famosa, danza anche all’estero, attira la stampa, di lei si parla di un talento nascente, persino il Paris Time di lei scrisse – Lucia Joyce è la figlia di suo padre, ma James Joyce potrebbe essere conosciuto come il padre di sua figlia Lucia – Sarà stato questo a scatenare rabbia e gelosia ? Forse, o forse no, ma certo è una strana coincidenza che suo padre James, proprio allora, le proibisce di continuare a danzare con la scusante che tale esercizio, se continuato, avrebbe potuto nuocerle alla salute perché troppo faticoso, aggiungendo che sua madre Narc era talmente in pensiero per lei che rischiava di ammalarsi a causa sua. Pertanto, per il bene di tutti, non poteva più consentire a Lucia di proseguire quanto iniziato. Per farsi obbedire, le addolcì l’amara pillola, le indicò infatti una strada alternativa: poteva dedicarsi al disegno così da illustrare i libri del padre. Trovatasi senza vie d’uscita, Lucia cadde nella malinconia prima, nella depressione poi. Scontati i ricoveri in manicomio, come scontati furono i trattamenti: isolamento, camice di forza, farmaci che le annientavano ogni reazione. A liberarla fu la morte, precoce per l’età che aveva.
Il padre utilizzò questa tragedia come ispirazione per scrivere – Finnegans Wate –
Null’altro. Ma, non avrebbe mai potuto prevedere che le verità sarebbero venute fuori, e che Lucia non sarebbe stata dimenticata. Se ne è parlato, se ne è scritto, sono sorti persino gruppi di fan pro Lucia. Ancora adesso, ogni anno, sulla sua tomba, all’anniversario della sua morte, un gruppo di nostalgici si reca lì per declamare versi in suo onore e, nel 2018, sempre sulla sua tomba, fu rappresentata un’opera scritta per lei dal titolo – Letters to Lucia –
Gemma Donati, moglie di Dante Alighieri.
Questo è un caso che può apparire paradossale, ma non lo è.
Essendo la moglie dello scrittore più famoso del mondo, senza scadenza di tempi e senza rischiare di essere smentiti, sarebbe scontato pensare che anche lei,
in misura ovviamente ridotta, fosse divenuta famosa se non altro per luce riflessa, se non altro perché ricordata e citata appunto in qualità di moglie, se non altro per rispettare gli eventi della loro storia familiare e personale. Invece no, nulla.
Di Gemma Donati si sa soltanto che era discendente di un casato nobile, niente per mano degli storici, dei biografi, niente da Dante stesso, neanche uno stralcio di pagina di diario o una sua frase trasmessa oralmente. No, niente!
Di contro, sempre Dante, suo marito, ha sprecato fiumi di parole per Beatrice, un amore immaginario e mai vissuto che ha decretato l’immortalità di Beatrice, nome entrato di diritto nella storia e nella gloria, nella leggenda e nei sospiri, nel sogno e nell’idealizzazione. Una coppia che fa ancora parlare di sè, che fa discutere attraverso versi in una lingua ancora studiata nei licei, coppia che viene usata per simbologia, per similitudini, e persino per fare battute. Dante ha reso Beatrice l’amore per antonomasia, la donna così idealizzata da divenire irraggiungibile, l’apoteosi della femminilità e della purezza, la donna intoccabile dall’amore fisico perché alta su tutte le altre, il cielo su una terra sottostante e lontana, l’altezza verso ogni bassezza, un grattacielo al confronto di una bassa tana, e si potrebbe continuare all’infinito con altre similitudini, ma della moglie neanche uno scritto dietro pseudonomo. La storia di Firenze, in maniera indiretta, ci ha fatto sapere che fu lei a rimanere vedova, e anche che riuscì a farsi restituire la sua dote dai beni confiscati al marito. Tutto qui. Come definire un tale fenomeno? Non so.
Oltraggio, indifferenza, casualità? Si, ma io credo che ci sia uno dei soliti complotti, oltre la volontà stessa di Dante di non unire vita privata al genio narrativo e letterario. Si, io credo che nessuno ha voluto toccare il nome stesso di Beatrice che rappresentava, anche oltre la Commedia, tutto ciò che si potesse aspirare dall’amore. Come se, lasciando anche un misero dato reale di Gemma, si profanasse quell’amore incarnato in Beatrice che doveva rimanere invece illesa e integra nel corpo, nel cuore e nella mente delle generazioni. Beatrice doveva rimanere Beatrice, nessuna altra donna reale o immaginaria doveva essere associata a Dante e alla sua Commedia. E ci sono riusciti. Completamente.
Milena Maric, prima moglie di Einstein.
Milena era dotata di una intelligenza decisamente superiore ma, la sua zoppia, la rendeva timida e insicura. Bravissima negli studi, deve al padre il prosieguo universitario, lui riconobbe il talento di sua figlia al punto di trasferire tutta la famiglia a Zagabria dove Milena avrebbe potuto studiare all’università, lì alle donne era concesso. Era una giovane matricola quando incontra e frequenta Einstein, lei suona il violino e lui il pianoforte, insieme studiano fisica e matematica, insieme decidono di vivere anche la loro vita privata. Si scambiano lettere, era così che si comunicava a quei tempi, leggendole si comprende una sorta di parità di ruoli, efficienti entrambi, sicuri entrambi di avere una vita in comune sia professionale che sentimentale.
Nonostante l’opposizione della famiglia di lui, che non apprezzava una nuora intelligente e non ebrea, i due si sposarono. Breve fu la durata di tali entusiasmi e sentimenti, quasi subito infatti ebbero inizio problemi, ostacoli e dolori. Milena non supera l’esame finale quindi non viene ammessa al Politecnico, la prima figlia si ammala di scarlattina proprio mentre Milena è in una seconda gravidanza, le entrate economiche scarseggiano mese dopo mese e Milena è costretta a lavorare, ora come cameriera ora come badante ai capezzali degli ammalati. Ciò nonostante continua comunque a studiare e a fare ricerche nel campo della fisica, spesso ancora con lui. Per lei quindi quell’impegno nello studio e nella ricerca era doppio se non triplo, sfibrante, debilitante. Lui invece si dedica soltanto ai suoi studi e alle sue ricerche, e ha tutto il tempo per iniziare a farsi notare. Viene seguito, viene applaudito, inizia la sua scalata per il successo e la notorietà ma, di pari passo, inizia anche il distacco dalla moglie, distacco che culmina con l’innamoramento verso sua cugina Elsa. Einstein lascia la moglie Milena e sposa Elsa. Milena resta così senza marito, senza soldi, senza laurea ma con due figli a carico e un cumulo di appunti da chiudere nel cassetto.
Nulla più fu dato a Milena, nè condiviso con lei.
Quando nel 1992 Einstein ricevette il Nobel, fu costretto a donare alla prima moglie il denaro del premio, non per volontà ma per costrizione appunto, in quanto esistevano le prove di ciò che asseriva la sua ex moglie, un patto stabilito tra loro quando erano giovani innamorati e collaboratori: se raggiungi la fama, anche grazie ai miei studi, tu Albert godrai della fama e della gloria, io probabilmente non potrò, ma del denaro si. Soltanto così Milena esce dalla indigenza, compra una casa per sé e i suoi figli mentre una parte la affitta, e questa rendita le permette finalmente una vita più decente.
Albert e la sua seconda moglie, allo scoppiò della guerra, si rifugia in America dove la sua fama cresce e lo consacra tra i grandi scienziati del mondo.
Milena vivrà a lungo, nell’anonimato e in una vita privata di carriera e fama, nel dolore di aver perso anche sua figlia morta di scarlattina.
Hanno iniziato insieme, erano a pari merito come intelligenza e studi, come applicazione e genialità, ma la sorte femminile porta Milena a scendere gradino dopo gradino dalla scala cui era salita per merito, mentre la sorte maschile ha portato Albert all’alto della sua scala, e lì è rimasto.
La ricompensa arriva tardi, soltanto nel 1986, quando vengono messe all’asta le lettere che la coppia si era scritta ai tempi della collaborazione scientifica, ed ecco che si scopre che lui usava sempre il noi, non io ho studiato, ho ricercato, ho scoperto bensì sempre noi abbiamo studiato, noi abbiamo ricercato, noi abbiamo scoperto. Da quel momento in poi, circa la vita di Einstein, si è sempre parlato di un Nobel meritato da entrambi ma mai riconosciuto, a iniziare da lui stesso.
Dalla biografia di Milena, che qualcuno ha avuto il coraggio di pubblicare, questa frase dice tutto: – Nata del sesso sbagliato, nel secolo sbagliato –
Su questa donna, dal Nobel messo in discussione in poi, sono stati scritti altri libri e persino opere teatrali, e si è arrivati ad inserirla tra le sei donne del suo secolo che hanno veramente cambiato il mondo.
E’ una consolazione ? Si, sufficiente. Perlomeno ora si sa che il grande genio della matematica e della fisica ha avuto bisogno del genio di sua moglie, la prima, per meritare il Nobel che si è tenuto stretto solo per sé. Come morale dell’intera vicenda direi che la mia considerazione finale è che lei non ha mai saputo quello che le hanno riconosciuto perché postumo, e mai avrebbe potuto immaginare che un giorno sarebbe avvenuto, quindi è morta nella delusione, nella mortificazione del suo talento, e questa è una realtà inconfutabile. Di contro però, anche se troppo tardi per lei, tutti ormai sanno che la famosa scoperta Einstein l’aveva fatta con una donna, sua moglie, la prima, quella che era stata sacrificata come donna, come moglie, come scienziata. Direi che, sotto certi versi, ha vinto lei !
Nettie Stevens, scienziata.
Ed eccoci ad un altro Nobel rubato.
Nettie Stevens è la scienziata che scoprì la funzione del cromosoma Y ossia la determinazione del sesso di un embrione, e non solo, scoprì anche che è proprio negli uomini che l’unione dei due cromosomi determina il sesso del nascituro: XX è femmina, XY è maschio. Con questa scoperta Nettie cancellò di colpo tutti i secoli precedenti pervasi di ingiuste accuse contro mogli che non partorivano figli maschi, non garantendo così la discendenza e il mantenimento del cognome.
Ma andò oltre, direi ancora peggio, perché dimostrò persino che il non riuscire a garantire il tanto sospirato figlio maschio, era totalmente a carico del marito.
Nella euforia delle due scoperte, Nettie commise l’errore di precipitarsi dal suo collega Morgan certa che si sarebbe complimentato con lei e che avrebbe provveduto a diffondere la notizia. Invece, sicuramente con la collaborazione di altri, Morgan si appropriò di tutto facendo passare le due scoperte come frutto dei suoi studi. Si beò del suo Nobel e di tutte le conseguenze positive ad esso legate, schiacciando ogni voce di corridoio con una definizione sarcastica e denigratoria: – Nettie Stevens? Una brava tecnica di laboratorio –
Come si è saputo della frode? Forse grazie ad altre brave tecniche di laboratorio!
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Purtroppo, dopo di loro, e molto probabilmente anche prima, altre donne hanno subìto l’ingiustizia di vedersi scippare un Nobel. Ne cito una, Joan moglie dello scrittore Castleman, fu lui a ritirare il Nobel senza mai voler confessare che in realtà era sua moglie a scrivere. Quando Joan assistette al vanto del marito circa il premio ricevuto e non resse più alla finzione e decise di rivelare la verità, lui morì sul colpo.
Nonostante tale verità fu conosciuta da tutti, Joan non ha mai ricevuto riconoscimenti postumi e, peggio, il Nobel è rimasto a lui. Un film di pochi anni fa, interpretato dalla grande Hellen Mirren, ha fatto conoscere ulteriormente questa inaccettabile ingiustizia. Ma una nota non posso fare a meno di citarla: nelle mie ricerche non sono riuscita a trovare il cognome di questa donna, a meno che non si tratti di omonimia, ovunque si legge sempre e soltanto Joan Castleman. E l’elenco di donne in eguale condizione è lungo.
C’è Rosalind Elsie Franklin ad esempio, la biochimica che fece importanti scoperte sulla struttura molecolare del DNA e del RNA, pubblicandole persino, ma che furono utilizzate dai suoi colleghi Watson e Crack per elaborare il modello chimico della molecola del DNA. Vinsero il Nobel ma diciamo che doveva essere ritirato da sei mani, invece la Franklin non fu mai nominata, né in quel giorno né in altri, né mai premiata.
E c’è la pittrice Margaret Keane che, per esporre i suoi quadri e venderli, dovette cedere al ricatto sociale: farli passare per opere del marito. E così fu, lei in casa a dipingere, lui a frequentare l’alta società e a preparare mostre e vendite delle quali ne godeva prevalentemente lui. Non so quando né come fu scoperta la verità, ma so che ancora una volta è stato il cinema ad inchiodare il falsario !
Di contro, in ogni epoca c’è stata la donna opposta, quella cioè che, o per reale convinzione o per convenienza, dichiarava la totale inferiorità della donna e pertanto l’obbligo di essere obbediente e subalterna all’uomo, come diceva Annie Vivanti che, grazie a questa sua posizione, riuscì a pubblicare i suoi scritti acclamati persino da Carducci e Benedetto Croce.
Ed è proprio a causa di queste donne che tante altre sono state costrette ad usare pseudonimi maschili, come Beatrice Speraz che per essere pubblicata usava lo pseudonimo di Bruno Sperani, come Luisa Gervasio in arte Luigi di San Giusto, come Ida Finzi alias Haydèe, come Sophie Germain che utilizzò lo pseudonimo maschile di August Le Blanc per poter avere accesso ai laboratori ed effettuare le sue ricerche, cui fecero seguito importanti scoperte. Dopo la sua morte, ma non subito, alcuni numeri primi sono stati battezzati con il suo nome, ma finché rimase in vita non potè mai svelarsi, sull’atto di morte fu definita infatti soltanto una rentìere, una donna che viveva di rendita, null’altro.
E altre donne, e altre ancora… Purtroppo l’elenco è infinito.
Ma non riterrei completa questa mia mini ricerca se non citassi un’altra categoria di donne vittime del loro valore, ed è quella che contiene le donne che volontariamente si sono autoescluse o autorecluse, o per poca stima di se stesse, o per timore di dover faticare troppo per arrivare alla meta o, peggio, per non rischiare di non arrivarci mai, dalla creazione del mondo ad oggi è una sequela senza fine. Di contro sono altrettanto troppe quelle donne che spontaneamente hanno scelto di essere in una posizione di ombra, ombrellone, parafulmine dell’uomo amato. Io voglio citarne soltanto due appartenenti a questo contenitore mai pieno: Vera Slonim e Doora Maar.
Vera Slonim si immolò volontariamente al marito, lo scrittore Nobokov.
Per amore suo decise di abbandonare il suo passato di donna colta, traduttrice, scrittrice, per divenire il suo tutto: segretaria, correttrice di bozze, consigliera e persino autista. Da qui la frase che circolò in tutti gli ambienti culturali di allora, ma anche postumi – Nobokov non si chiude neanche l’ombrello, Vera gli lecca persino i francobolli – o peggio, in una canzone si recita – tagliami la carne da mangiare nel piatto come fa Vera Nobokov – Questa sua dedizione divenne ossessione e possessione, isolò sempre più il marito dividendo soltanto loro due ogni momento della giornata: lui amava le farfalle ma soltanto insieme ne andavano a caccia, lui amava gli scacchi ma soltanto loro due ci giocavano nel salotto di casa. Fu così maniacale la sua vita con Nobokov che la tendenza paranoica di immolarsi totalmente ad un uomo è stata definita Sindrome di Vera Nobokov. Suo marito non riuscì mai, o forse non volle, a liberarsi da questa schiavitù che però garantì a lui tutto ciò di cui necessitava, per compensarla le scrisse ben trecento lettere, nelle quali declama amore e gratitudine. Ma questo si prova anche per il cagnolino che ti fa compagnia e tante feste durante gli anni che vive in casa con te, l’amore e la ricompensa ad un amore umano sono ben altra cosa!
Dora Maar e qui siamo invece all’opposto. Qui il comportamento maniacale e carcerario fu del marito, il famoso Picasso, fu lui a distruggere una donna di talento che non riuscì mai a divincolarsi da quei tentacoli assassini. Doora conobbe Pablo frequentando gli stessi ambienti artistici, subito la relazione sentimentale, subito la sua collaborazione a molte opere di Picasso, persino con la Guernica. All’inizio accettò la irriconoscenza di quel mondo circa la sua arte e il suo reale ruolo al fianco di Pablo, subendo l’umiliazione di sentirsi accreditare soltanto la ispirazione che Pablo avrebbe avuto per alcuni suoi ritratti di donne piangenti, ma poi accettò anche i maltrattamenti psicologici di Picasso: viveva le sue altre relazioni in maniera spudoratamente libera, la manipolava e le riduceva sempre più ogni più piccola molecola di autostima ancora esistente, la plagiava affinché pensasse di non avere nessuna arte in nessun campo, e un lungo elenco di piccole torture quotidiane senza segno di ferite. La povera Doora dovette attendere l’arrivo di un’altra giovane vittima, che prendesse il suo posto in casa Picasso, per essere liberata da quella schiavitù, ma ormai aveva perduto ogni capacità e ogni volontà di vivere. Lui si prese altre sadiche soddisfazioni ritraendola piangente, accasciata, spenta. Lei non ricevette nulla neanche alla sua morte, i giornali diedero l’annuncio nel più piccolo trafiletto, scrivendo soltanto che era deceduta una delle amanti di Picasso.
Donne calunniate, invidiate, derubate…
Donne imprigionate in una vita decisa da altri in quel momento potenti…
Donne segregate, relegate negli angoli polverosi della casa, donne imbavagliate…
Donne segregate, relegate negli angoli polverosi della casa, donne imbavagliate…
Donne ricche di talento, temute, odiate…
Tutte Donne. Si, Donne, con la maiuscola …
Annamaria Porrino 2024