Torno al vicolo che mai più nessuno nominò. E ho il fiato spezzato, lui ha più paura di me. Manco da tanti anni, troppi, come troppi i rinvii, giustificati senza mai un vero convincimento. Manco dalla notte che segnò le sorti di tutti noi, fuggiti all’alba dal vocio popolare che ci sarebbe stato da lì a poche ore. Lasciammo tutto così com’era, come era stato, al tempo che fu e mai più poteva essere. Tempo felice per me fino a quella sera. Una di noi decise di inscenare un tentativo di suicidio per garantirsi l’attenzione, la cura, l’amore. Io, non avevo ancora spento dieci candeline. La mia felice infanzia era già stata interrotta dalla nascita prematura e morta di un fratellino, il terzo doveva essere dopo mia sorella e me, il tanto sospirato figlio maschio. E lo era, ma senza più fiato. Fu deciso quindi, da colei che questo lutto non volle mai accettare, che anche io dovevo essere senza fiato seppure viva. La primogenita era la primogenita, io avrei dovuto essere un maschio e invece, sorpresa, un’altra femmina. Non si rassegna, dopo qualche anno ritenta, ed eccolo il desiderio avverato ma da subito strappato al suo abbraccio materno. In quella piccola sepoltura fui messa anche io, colpevole di essere nata femmina, quindi causa del dolore presente. Non me lo hanno mai perdonato. Lasciai così, vicino quella piccola croce, la mia brevissima infanzia felice, mi avviai senza saperlo ad una vita di disumana punizione. Pochi anni dopo, i punti familiari si fissarono definitivamente in quella tarda sera. Era tiepida, le tende bianche del salone svolazzavano come le bandiere di chi si arrende, mi inquietavano e non capivo perché. Le spostai, il balcone era aperto, mi affacciai e vidi. Giù, di un piano più basso della nostra casa di paese, quella delle vacanze estive dove ero libera di giocare senza restrizioni, un corpo scomposto ma intero mi guardava. Stava aspettando di essere scoperto, poteva iniziare a urlare di finto dolore, diede il via alla recita. Con quell’atto, di calarsi al piano di sotto slogandosi soltanto una caviglia, quel corpo si garantì il dominio a vita. Chiesi aiuto, accorsero, le urla mi spinsero in fondo alla stanza, ma non tanto lontano da non vedere. Di fronte a me due reazioni opposte: il terrore di mia madre che temeva avesse perduto la figlia amata, l’accettazione paralizzante di mio padre che capì chi fosse quella figlia e perché lo aveva fatto. Capì che non avrebbe più avuto una moglie ma soltanto una donna vittima delle sue maternità, e che quella figlia si era guadagnata il trono della intoccabile. Di buon mattino mi fecero alzare, chiudemmo tutto e fuggimmo, poche ore dopo tutti avrebbero parlato del tentativo di suicidio di una giovane appartenente ad una delle cinque famiglie bene del paese. Per i miei genitori si chiudeva il palazzo della vergogna e della paura, e si salvava un presente che doveva apparire meno scandaloso. Per me si chiudeva la mia infanzia, quella fatta di nonni cui spettava la seduta a capotavola, seguiti dagli zii posti in ordine di nascita, e cugini che dovevano garantire il buon nome della discendenza. Amavo quella dimora, ogni stanza mi raccontava la sua storia, era per me come passare tra le vite degli avi ed impossessarmi di qualche frammento per proteggerlo dall’usura, quella destinata a me aveva due puttini dipinti al soffitto, io mi ci addormentavo serena, c’erano loro a custodirmi. Ma i ricordi non sono mai stati sufficienti a sopportare gli anni a venire, sono serviti soltanto a farmi rammentare che qualche anno felice mi era stato concesso. Seduta in macchina, di fianco a quella caviglia slogata, rividi come un flash istantaneo una scena della sera prima: nessuno, tra quelli presenti e quelli accorsi subito dopo, aveva rivolto uno sguardo verso me, meno che mai una parola. Non fu fatto quella sera, né le altre dopo, eppure mi sarebbe bastato che qualcuno mi avesse detto – è tutto a posto, non è successo niente … è stato un incidente … è caduta … – A me sarebbe bastata anche soltanto una carezza, se non proprio sul viso ma almeno tra i capelli. Mi sarebbe bastato che qualcuno si fosse accorto di me. Eppure, ero la bambina che aveva visto tutto, che aveva avuto paura, la bambina che da subito aveva compreso che avrebbe dovuto trovare da sola il modo per smettere di tremare. Non sapevo ancora che sarebbe stato l’allenamento costante della mia vita, pari a quello di amare tanto questa famiglia per bilanciare, per essere quella si che pareggiava i danni di quella no, per sperare che un giorno a furia di essere miss perfettina, di amarli senza condizioni, di accettare il ruolo di cenerentola, si sarebbero voltati verso me e mi avrebbero vista, o almeno che fossero arrivati a provare pietà concedendomi l’elemosina dei loro scarti. Nel nulla delle aspettative inevase, ho proseguito i miei passi retti nella certezza di rimanere sempre dritta a staccare da sola ogni cartellino di arrivo, senza code di rancore. E arrivò quel giorno di tanti anni dopo, che decisi di tornare. Dovevo rivedere tutto per completare la rimozione dell’ultima trave sbilenca. Dovevo tornare al luogo in cui vissi l’ultima sera di una vita normale, e fare pace con quella successiva. Dovevo fermare quelle tende bianche che io ancora vedevo svolazzare davanti le mie palpebre dilatate. Dovevo tornare da bambina temprata per portarmi via l’altra che era rimasta fissata a quella data senza scadenza. Non ricordavo il nome dello stretto vicolo che portava all’entrata del palazzo, dopo l’arco principale. Cammino dei Passi, leggo dall’incisione. Ci sono, una piccola svolta a destra ed ecco il cortile. La parte bassa era destinata alla conserva dei cibi, dei vini, degli oli, di tutto ciò che nella casa padronale non doveva esserci. Piano spalanco la porta di legno ormai ridotta ad un terzo, quello che vedo non è però una sorta di grotta scurita dal vento, ma la dispensa che soltanto mia nonna poteva aprire, prendendo la chiave dal grande mazzo che pendeva sempre dalla sua cinta, e quando lo faceva, dinanzi a me era come se si aprisse la pagina di un libro di Andersen. Dapprima annusavo, ad occhi chiusi perché dovevo riempire la mia memoria olfattiva, un sovrapporsi di profumi di mele e miele, di origano a fasci e salami da essiccare, di pagnotte di pane con l’incisione della croce sulla crosta e olive in salamoia, di barattoli di zucchero e sacche di farina, di spezie e grappoli d’uva per farne liquori. Tutto disposto per genere e periodo di raccolta, tutto odoroso della propria stagione. Poi aprivo gli occhi perché dovevo saziare la vista, i colori e le grandezze mi parevano tavolozze ancora fresche, e quando dietro nonna potevo entrare anche io, sembravo Alice nella stanza dei balocchi. Lei prendeva e passava a me, io alla cucina, poggiavo tutto sul tavolo da lavoro e lei tagliava una fetta di pane, ci spargeva un po’ di olio e poi con le dita ci faceva cadere sopra tanto zucchero. Io rimanevo a mangiarla su quel tavolo, era dei bisnonni, così poggiavo i gomiti sui miei antenati. Ho sempre voluto tenere stretta la storia, a cominciare da quella familiare, era come sentire la loro pelle toccare la mia, e questo gioco mi piaceva tanto. Ed anche quando si riceveva la dispensa si apriva per prendere quello che occorreva per un caffè con dolci da offrire nel salone, dove c’era il salotto buono, quello sagomato e rigido, con la vetrinetta piena di ceramiche, le lampade bordate di macramè a pallini e i quadri antichi alle pareti, alcuni erano ritratti dei trisavoli e a me non piacevano, avevano una espressione arcigna. Noi, come anche gli altri zii e cugini, andavamo al paese per le feste natalizie e pasquali, e poi per tutta l’estate. A Pasqua non si riceveva, c’erano le funzioni della Settimana Santa e la preparazione dei pranzi in famiglia, a Natale invece si, una volta soltanto, per scambiarsi gli auguri anche per il nuovo anno, e in quel caso si offrivano torroni fatti in casa con tutta la frutta secca che c’era. Gli incontri estivi invece avvenivano una volta a settimana, e in quel caso si trattava di torte con frutta fresca, quella che di quel tempo i nostri alberi producevano. Io partecipavo alla preparazione in cucina e osservavo come poi sistemavano la sala, con la tovaglietta ricamata e il servizio buono di ceramica, a volte sul tavolino mettevo un piccolo vasetto con dei fiori che avevo colto in giardino o in campagna, nonna me lo permetteva. Poi, quando arrivavano le ospiti, le signore dovevano essere lasciate sole, ma le loro voci si sentivano, spesso anche le loro parole, a me però bastava osservarle quando arrivavano: tailleur finto Chanel, borsetta finto coccodrillo, decolté dal tacco basso e lo chignon sui capelli un po’ cotonati. Niente trucco. Dalle loro collane di perle si capiva chi fossero: un solo filo di perle piccole a girocollo era la moglie del farmacista, un filo di perle più lungo era la moglie dell’avvocato, due fili media lunghezza era la moglie del medico condotto, tre fili lunghi era la moglie del sindaco. La prima era maestra d’asilo, la seconda maestra elementare, la terza professoressa di latino al liceo del paese più grande distante 10 km, la quarta proprietaria di terre la cui rendita l’aveva resa il partito più ambito. Il giardino interno lo scopro piccolo, io lo guardavo con gli occhi di bambina quindi mi pareva grande anche se non lo era, le erbacce sono alte e dure come tronchi, impossibile entrarci. Rasento il muro e comunque mi pungono, mi avvicino alla gradinata, non è crollata. Ci poggio i piedi piano e intanto alzo gli occhi, è la facciata di un palazzo quasi pericolante, le finestre smembrate, senza vetri, sembrano gli occhi bui di un mostro ormai morto. Sono sul piccolo terrazzo da cui partivano i vari ambienti del palazzo, primo piano la zona giorno, secondo la zona notte, nel mezzo il salone. Vado sopra. La porta non c’è più, dinanzi a me l’immagine dell’abbandono, è il residuo di una casa deserta come la resero coloro che non l’amarono, lasciandola al tempo che mai più doveva tornare. Ragnatele sfilacciate, tracce di animali abitanti abusivi, intonaco cadente come straccio appeso. Le stanze, una dentro l’altra come erano in quegli anni, ci sono, presenti nel loro passato vergine. Cammino sul pavimento intatto di mattonelle cotte nel porpora e nel sabbia opaco a creare decori alternativi a tappeti che non piacevano. Le tende in parte ancora reggono, appesantite dalle polveri degli anni chiusi, un po’ d’aria ci passa nel mezzo e mi riporta al movimento dei miei giochi, è un soffio d’intimità puerile serbata ancora nel cuore. Sorpasso la mia cameretta, voglio ricordare i puttini del soffitto con i loro colori vivaci, non voglio scoprire che sono crollati con la mia famiglia. L’ultima era la camera da letto degli adulti, e la porta è chiusa. Giro il pomello di ceramica bianco che fungeva da maniglia e mi appare quasi intatta, obliqua alla parete la tolettina che mi incantava. Mi siedo sul puff e mi specchio. Sono di nuovo bambina che gioco a fare la signora pettinandomi con la spazzola d’argento dalle morbide setole, spruzzandomi la colonia dal soffietto di gomma, indossando la collana di perle sempre appesa alla specchiera. Quella di mamma era a tre fili, se l’era guadagnata sposando mio padre. Mi mettevo lì quando non ero vista, e facevo discorsi da grande come quelli che sentivo dai grandi. Con un colpo di mano cancello questa visione dalla specchiera, mi volto, apro l’armadio e ci entro come facevo da piccola quando qualcuno iniziava a fare di me il suo sfogo d’eterna rabbia e gelosia. Mamma non interveniva mai, fingeva di fare altre cose, così io lì dentro mi facevo proteggere dai suoi abiti appesi alle grucce Mi illudevo che ci fosse lei e mi sentivo tranquilla. Ora non c’è nulla, neanche l’odore di quegli abiti è rimasto. Riapro l’anta, per abitudine mi guardo intorno, posso uscire. Mi sporgo dal balconcino mantenendomi al muro, temo possa crollare, ed eccola quella chiesetta secondaria che mi piaceva molto di più di quella intarsiata detta principale. E ancora mi rivedo quando, a quelle poche persone che alla sera ne uscivano, io volgevo il mio saluto sventolando la manina timida prima che venissi sgridata, non si dava confidenza agli sconosciuti seppure paesani. Rientro lasciando fuori quegli estranei invisibili, e gli occhi ora vanno al capezzale del letto grande, si fermano nel quadro che ancora lo sovrasta, una Madonna Addolorata mi fissa, strano che non me ne abbiano fatto dono di scherno tutti quelli che mi hanno condannata al velo nero. L’hanno lasciata qui questa Madonna piangente, chissà perché. Riprenditelo questo velo, le sussurro, il tuo amore mi ha eretta, mi hai tolto ogni lutto. Giro per la stanza, e poi di nuovo e di nuovo ancora, non ha odore, non c’è tanfo di sporcizia nè di chiuso né d’umido né d’abbandono, forse perché io non l’ho abbandonata mai. Qui oggi, infanzia mia, ti ho ritrovata intatta come il giorno in cui quei miseri grandi, fuggendo, decisero di chiuderti qui dentro e scappare via anche da te che volevi cambiarli. Nella mente del ricordo ti ho portata con me e oggi ho capito che non ti ho mai lasciata scappare delusa, siamo cresciute insieme, sei la mia unica eredità, e ti ho tenuta nascosta per non farmi scippare anche questa. Esco, di nuovo scendo per quei gradini pericolanti. Mi accorgo di parlare, parole che escono dalle mie labbra più veloci del fiato, a metà tra poesia e preghiera: – Non mi spegnerò. La sofferenza è stata inumana, di quelle che ti fanno essere commiserata ma soltanto nel tempo di finire il piatto di pasta e passare alla frutta, croste alle ginocchia ormai croniche per le tante spinte ricevute, inevitabili cadute nel pianto di bimba che cerca la sua mamma per farsi curare ma scopre essere una delle spintarelle. Le sconfitte ai tanti propositi impediti già dal pensiero e lacci a bloccarmi l’aria per restarmi in una perenne apnea, eppure rimango intera, è così che mi sveglio col sole che s’alza meravigliandomi ancora della nuova alba che vedo, e a pensare sempre con i verbi all’infinito: fare, scrivere, pregare, amare. Sognare – Volto le spalle alla porta col lucchetto, lascio il Cammino e mi rimetto in macchina. Continuerò ad attendere la riparazione al torto perché, se smettessi, mi sentirei sconfitta nella mia fiducia verso il bene, come quei passerotti che cercano semi ma trovano soltanto concimi, eppure non smettono di cercare. Ritorno alla mia monade, nel mio specchio ancora vedo quella bambina seduta alla tolettina che faceva la grande, forse sapeva già che lo sarebbe stata sempre, a dispetto dell’anagrafe contraria. Le sorrido, le sussurro ti amo e le confermo il mio non pentimento d’averla tenuta stretta a me, nascosta nei cunicoli del mio cuore. Un sospiro di orgoglio mi riempie i polmoni, sono fiera di me per essere voluta rimanere nella pelle intonsa dell’età dei giochi.
Fine
Annamaria Porrino