“Il libro dell’inquietudine”
di Fernando Pessoa
Come sua abitudine, anche in questo caso Pessoa firma uno dei suoi capolavori, o almeno il suo libro più conosciuto, con l’eteronimo Bernard Soares, uomo immaginario di Lisbona, anonimo, abitudinario, scontato, taciturno e un po’ vile, un semplice contabile che dal suo ufficio osserva la città, ne scruta il nulla quotidiano e lo elabora in inquietudine. Si, è così che lo definisce, il nulla quotidiano della società che lui osserva dalla sua scrivania d’impiegato. Il libro dell’inquietudine è un susseguirsi di riflessioni su tutto ciò che è la vita e l’essere vivente, alla ricerca pacata e sofferta dell’equilibrio perduto nell’ amarezza della propria esistenza, che mai ritroverà.
“Se sollevavo dai libri i miei occhi stanchi, o se dai miei pensieri sviavo la mia perturbata attenzione verso il mondo esterno, vedevo soltanto una cosa che mi smentiva ogni utilità di leggere e pensare, strappandomi uno ad uno tutti i petali dell’idea dello sforzo: l’infinita complessità delle cose. Ho chiesto tanto poco alla vita e anche questo poco la vita me lo ha negato: un raggio di sole, un sorso di quiete con un morso di pane, che non mi angosci molto sapere che esisto, che non esiga niente dagli altri né che gli altri lo esigano da me. Pure questo mi è stato negato, come chi nega l’elemosina non per mancanza di bontà d’animo, ma per non doversi sbottonare la giacca”
Avvicinarsi a questo capolavoro della letteratura mondiale, che costò a Pessoa 20 anni della sua vita, significa lasciarsi alle spalle certezze per avviarsi con lui verso il buio del mistero interiore, rivisitare ogni concetto che prima avevamo dato per sicuro, spogliarsi di tutto e ricominciare a vedere l’uomo, dal nulla in poi. Per continuare a vagare all’interno di questo capolavoro, a giusta ragione definito un diario dell’anima, bisogna chiudere a chiave il proprio bagaglio emotivo e immergersi in quello di Pessoa, tinto del pensiero di Kierkegaard e Bergson.
“Ho conquistato palmo a palmo il terreno interiore che era nato mio. Ho reclamato spazio dopo spazio il pantano in cui ero caduto nullo. Ho partorito il mio essere infinito, ma da me stesso mi sono estratto con il forcipe. E dormo alla mia maniera, senza sonno né riposo, questa vita vegetativa della supposizione, e sotto le mie palpebre inquiete si alza, come una schiuma quieta di un mare sporco, il riflesso lontano dei lampioni muti della vita”
La vita per Pessoa è solitudine con i suoi fallimenti, una inquietudine boia che uccide ogni insensata speranza di ricrescita, è la pittura del nulla che vaga nel cuore e nella mente dell’umanità.
“Sollevo il capo verso la conoscenza di come esisto e vedo che tutto ciò che ho fatto è una specie di inganno, una ubriacatura innata. Non mi sono neppure recitato. Sono stato non l’attore ma i suoi gesti. E la sensazione che ho di me è quella di colui che viene liberato, a causa di un terremoto, da un carcere semibuio a cui si era abituato”
Pagine dopo pagine in un crescendo di inaccettabilità di se stesso, riflesso negli altri che vede e non ama, gli altri che sono lui come fossero specchi seppur dalle sembianze ignote.
Non si ama, non ama gli altri che gli ricordano lui e i suoi fallimenti umani.
Tra disprezzi, silenzi, solitudini tediose, profondità interiori di dolore senza rimedio, inaspettatamente Pessoa descrive anche paesaggi con vedute riportabili comunque alla vita.
Una delicata e poco percettibile aderenza al romanticismo smorza i toni precedenti e ci fa illudere che l’autore possa aver trovato il suo equilibrio tanto cercato.
“Essere qualcosa che non senta l’uggia della pioggia, né l’amarezza della vacuità intima… vagare senza anima e pensiero per strade che contornano montagne… perdersi in paesaggi come quadri, non essere costituito di lontananza e colori”
Illusione appunto. Stralci di vita non umana che apprezza proprio perché non umana ma niente che lo distrae dalla bassa considerazione di se e dell’essere umano qualunque.
Dove è l’unicità di Pessoa? Essere riuscito a non essere mai distruttivo, senza speranze ma mai patetico, scrutatore dell’intimo senza definizioni da condanna, narratore degli stati d’animo scorrevole come un ruscello d’acqua dolce, fedele, coerente. Vero senza pietismi.