Vivian Maier, fotografa, dagli anni venti ai primi del duemila
Ho fotografato i vostri momenti di eternità, affinché non andassero perduti pare abbia detto, non si sa quando, non si sa a chi. Io sono un diario segreto Credo che avrebbe detto se avesse deciso di parlare di sé. Ma non lo ha fatto.
Chi non conosce Vivien Maier e le sue magnifiche foto, ma fino a quando è stata in vita? Nessuno.
Si sapeva che faceva la bambinaia e che nel tempo libero fotografava, questo si, ma che non fosse affatto una fotografa casalinga bensì una straordinaria artista, geniale e innovativa, questo proprio no. Eppure fotografava semplicemente il suo quotidiano, quello vissuto e quello incontrato, 100.000 foto di ciò che lei ogni giorno vedeva nelle persone, nei luoghi, negli occhi, nelle espressioni di viso e corpo, per le strade, era lei a rendere non banali né scontati i suoi scatti. A saper cogliere quell’esatto istante in cui quella cosa o quella persona rappresentavano l’attimo degno di essere immortalato. Quando fotografava persone semplici o povere lo faceva a distanza, li rispettava, quando invece scattava foto al ceto sociale alto e ricco, li coglieva nel momento della rabbia o del fastidio o della noia, e lo scatto era ravvicinato. Famosissima la foto di lei riflessa in una vetrina con al collo la sua inseparabile Rolleiflex 6×6. Lei è seria, senza espressione, quasi disturbata di autoritrattarsi, è il simbolo della sua fotografia: privata, doveva essere solo per portare appagatezza a lei. Ha conservato tutti i negativi e non ha mai mostrato le sue foto a qualcuno, neanche chi amava. Alla sua morte questi negativi furono casualmente comprati a un’asta da un regista, il ricavato doveva servire a pagare i debiti rimasti dalla Maier che aveva vissuto i suoi ultimi anni in una sorta di indigenza perché, troppo in là con l’età, non poteva più essere la tata di nessuno. A lui dobbiamo il film documentario che ha fatto conoscere la Maier a tutti, da quelle foto ha ricostruito la sua vita e la sua produzione artistica. Io l’ho visto, e il finale mi è rimasto impresso: non la conosceva proprio nessuno, i suoi datori di lavoro e i bambini che lei aveva cresciuto se ne erano dimenticati. Intervistati per il film l’hanno ricordata come la tata che scattava foto anche alle bucce di banane buttate nel secchio dell’immondizia. Un anziano signore che amava passare un po’ della sua mattinata su una panchina di fronte alla città in cui viveva, quasi ogni giorno li ci trovava la Maier, silenziosa osservava ciò che vedeva di fronte a lei, e qualche volta fotografava. Morì così. Ebbe un malore proprio lì, fu presa da un’ambulanza e portata in una casa di cura, durò pochi giorni.
Fu molto dopo che quel signore seppe che per tanti anni era stato seduto di fianco alla Maier, quella grande fotografa che nessuno prima conosceva, morta nello stesso silenzio e anonimato con cui aveva vissuto. Avrebbe mai previsto questa fama postuma? Credo di no, di sicuro non l’ha mai cercata. Di lei tutti ricordano la famosa foto riflessa nella vetrina, con un cappellino tondo in testa e una camicetta maschile, ma io la immagino con la stessa espressione, tra il malinconico e l’asociale, che osserva il mondo seduta su quella panchina su cui ha lasciato la vita, nel totale anonimato. Ed è così che voglio ricordarla, come lei ha voluto vivere fino alla fine, non come l’hanno fatta diventare dopo. Famosa.
Eppure nei suoi ultimi anni di vita qualcuno avrebbe potuto almeno aiutarla a pagare le bollette. Ma perché poi, era soltanto una tata in pensione.