Eleanor Roosevelt, moglie del Presidente degli Stati Uniti d’America, femminista, metà del 900
Non sono riuscita a nessuna età ad accontentarmi di rimanere accanto al fuoco, nessuno deve girare le spalle all’esistenza.
A questa donna dobbiamo la rottura dell’immagine, fino ad allora esistente, che se sei al fianco di un marito famoso e potente il tuo ruolo sia quello di partecipare a cene ufficiali e rimanere nell’ombra, impegnandoti soltanto a non dare scaldalo con parole o condotte non adeguate. No, lei utilizzò il nome e il potere del marito per agire, per lottare contro le ingiustizie e i pregiudizi che le donne ancora subivano. Si battè per ogni tipo di diritto umano ancora da conquistare, pur rimanendo una first lady che partecipava a feste di gala, vestiva elegante e incontrava gente famosa.
Da lei, e da altre non famose, il femminismo inteso come lotta per il raggiungimento del riconoscimento dei diritti civili alle donne, ha continuato a camminare, entrando nelle istituzioni e nelle famiglie, trovando sempre il modo per continuare a tenere tesa quella catena cui nessuno è riuscito a spezzare neanche un anello.
E siamo arrivate agli anni 60 / 70.
Quelli furono gli anni della contestazione giovanile, della ribellione agli schemi, degli slogan che inneggiavano a libertà d’ogni genere, della convinzione di riuscire a ribaltare ogni sistema, del rinnegamento di tutto quello che era avvenuto prima in ogni settore sociale: lavorativo, politico, familiare.
Fu esagerato e a volte esasperato, spesso rasentava l’anarchia ma comunque portò alla conquista di diritti sociali importanti.
Poi ci fu una sorta di calma, molti fecero dietro front. Tante di quelle donne che avevano sfilato urlando – io sono mia – sono diventate insegnanti, impiegate di banca, mogli e madri, sono rientrate cioè in quegli schemi lavorativi e familiari che prima avevano contestato, e chi di loro ha fatto carriera ha imitato i comportamenti dei dirigenti maschi dimenticando quanto e cosa anni prima avevano gridato nelle piazze.
Altre hanno confuso le libertà ancora da acquisire con il libertinaggio o la trasgressione che non sono affatto la stessa cosa, e così sono rimaste, passando di volta in volta tra mode d’ogni genere, quindi per qualche tempo hanno continuato a fare le figlie dei fiori, poi le punk e ora le finte naturaliste che vestono male e senza gusto perché così dimostrano di non essere legate alla esteriorità, o con atteggiamenti da maschiaccio per dimostrare di essere forti.
Insomma dagli anni 80 in poi molte di quelle femministe sono diventate conformiste, altre hanno seguito soltanto mode che non portavano a nessuna conquista ma soltanto al gusto di scandalizzare un po’, altre si sono fermate a quello che era stato raggiunto perché bastava così.
E questo è in parte vero, per un buon ventennio sembrava si fosse raggiunto un giusto equilibrio tra i sessi, le porte per le donne erano ormai aperte tutte, e molte di noi ci sono entrate.
Per me la vera immagine del femminismo è quella delle madri di Plaza de Mayo. Da trent’anni sfilano tutte insieme per rivendicare la restituzione dei corpi dei loro figli uccisi dal regime dittatoriale argentino di Pinochet. Senza paure di arresti o persecuzioni varie, si sono tolte il grembiule di casalinghe e costantemente sfilano con le foto dei loro figli ancora dispersi. Nessuno dei loro mariti lo ha fatto, hanno temuto di fare la fine dei loro figli che si erano opposti al regime. Sono tenaci, non le ha fermate nessuno, non si sono arrese mai, hanno ottenuto l’attenzione e la solidarietà del mondo intero, ma ancora non hanno ricevuto niente.
Nessuno ha detto loro dove possono riprendersi i corpi dei loro figli.
Eppure in questo ultimo decennio sembra che la storia della emancipazione femminile si sia rivoltata indietro: siamo tornate a espressioni di razzismo, agli ostacoli verso le donne nei luoghi di lavoro, al rifiuto di sostenere le donne lavoratrici con leggi adeguate, fino ad arrivare ai nostri giorni nei quali per la donna lavoratrice è diventato quasi impossibile vivere una maternità.
Siamo tornate cioè al datore di lavoro che ancora infastidisce la dipendente, che le fa mobing se lo reputa necessario, che non assume donne giovani perché potrebbero un giorno chiedere l’assenza per maternità o che ti dice che, se proprio vuoi essere anche madre, devi arrangiarti da sola perché i diritti a te dovuti non ti verranno riconosciuti.
Nelle famiglie tarda ancora ad arrivare la parità di doveri tra coppie e genitori.
È sulle spalle delle donne che ancora rimane gran parte del lavoro domestico e genitoriale. Insomma si sta assistendo, sotto vari punti di vista, ad un pericoloso ritorno al passato. Testimone di ciò è il dilagante ritorno dell’uso maschile della violenza, verbale e fisica, che spesso culmina con l’assassinio.
Il cosiddetto femminicidio, termine che quasi ingentilisce e certamente alleggerisce quello che invece è l’uccisione di una donna, sta riempiendo i titoli dei Tg e le pagine dei giornali da troppo tempo ormai, senza che si faccia nulla per prevenire questo orrore, né tantomeno per punire con la severità dovuta chi di questo sangue brama macchiarsi.
Se ti ribelli o mi lasci io ti uccido. Spesso sono minacce, ma altrettanto spesso si concretizzano in realtà. Stiamo vivendo quindi di nuovo la parte brutta della storia della emancipazione femminile, quella inversa, quella contraria che vorrebbe cancellare i decenni di conquiste. Vorrebbe.
Ma l’immenso, variegato, straordinario mondo delle donne c’è e mostra la sua presenza in ogni modo, anche scrivendo, anche guardando soltanto, senza usare la voce, con due occhi che esprimono un intero vocabolario, anche con l’esempio delle loro scelte di vita, riservate mai esposte ma che in qualche modo lasciano traccia di eredità.
Insomma sembrerebbe tutto perduto ma non è così, sembrerebbe tutto cancellato ma non è così, le donne lo hanno dimostrato o lo dimostreranno ancora.
Io lo faccio usando il silenzio della parola scritta, quando la leggi è di un rumore assordante. Eppure resta silente.